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Prezzi materie prime alle stelle: che fare, che cosa cambia per l’Industria

di Marco Scotti 

Quotazioni previste in rialzo ancora per lungo tempo. La supply chain post-Covid si è scoperta vulnerabile. L’incidente del Canale di Suez o l’attacco hacker all’oleodotto americano hanno mostrato come il Coronavirus abbia ridotto ai minimi le scorte. E ora che stiamo ripartendo servirebbe avere a disposizione maggiore profondità di magazzino. La Cina si sta ulteriormente arricchendo, i dazi non sembrano poter sparire in tempi brevi. E l’Europa non sa che pesci pigliare. Ne parliamo con Flavio Bregant (Federacciai) e Roberto Ariotti (assofond) 

 La pandemia da Coronavirus ci ha resi fragili non soltanto perché ha scardinato le certezze, ma anche e soprattutto perché ha mostrato le contraddizioni dell’economia mondiale. E per farci capire che qualcosa non stesse andando, non è servito tanto il blocco di qualsiasi attività produttiva come avvenuto durante il primo lockdown, ma piuttosto il ritorno alla normalità, scandito da eventi che normalmente sarebbero stati degni di qualche trafiletto e che hanno invece occupato le prime pagine dei giornali per giorni. La nave che ha bloccato il Canale di Suez; l’attacco hacker che ha paralizzato l’oleodotto americano; il maltempo che ha flagellato il mondo occidentale. Tutti eventi tutto sommato “normali” che hanno però mostrato ulteriormente la debolezza strutturale di un’economia che ha – per assurdo – sopravvalutato gli effetti della pandemia e ha invece sottostimato le conseguenze sul lungo periodo. Spieghiamoci meglio. 

Durante i primi mesi del Coronavirus, le aziende hanno di fatto azzerato gli ordini e si sono poste in modalità “sopravvivenza”, aspettando che passasse la buriana. Questo ha avuto due effetti immediati: il primo, statistico, che ha fatto registrare il primo tasso negativo del prezzo del petrolio sul Brent. Il secondo, concreto, che ha mostrato come terminata la fase acuta, ci sia stata una grande corsa non soltanto per ricomprare materie prime utili per la produzione, ma c’è stata anche una richiesta aggiuntiva, per ricostituire le scorte. E si è creato il cortocircuito che ha portato all’impennata dei prezzi, per la totale carenza di materieprime disponibili. Attenzione perché non si tratta di un semplice aumento dei costi, ma di un potenziale tsunami che – se non mitigato da azioni governative – potrebbe portare a un’altra crisi sistemica che metterebbe forse definitivamente in ginocchio le economie. 

Lo scorso 17 maggio Ferruccio De Bortoli, sulle pagine del Corriere Economia, ha ricordato come ci siamo fatti distrarre dal potere del digitale che sembrava poter risolvere qualsiasi problema. Invece, ha scritto l’ex direttore del Sole 24 Ore, “l’economia è ancora pesantemente fisica. Tutto questo enorme trambusto sui mercati, che ha già causato a valle consistenti aumenti di prezzo in alcune filiere, quando e come si trasferirà sui consumi finali? Una piccola fiammata inflazionistica è già in atto come conferma l’ultimo dato sull’andamento dei prezzi al consumo negli Stati Uniti (+4,2% su base annua)”. 

Che cosa dobbiamo aspettarci, dunque? Industria Italiana l’ha chiesto a Flavio Bregant, direttore generale di Federacciai e al presidente di AssofondRobertoAriotti. Abbiamo rivolto la nostra attenzione al grande mondo della siderurgia perché rappresenta quello più importante dal punto di vista strategico in Italia. Attualmente il Belpaese è il tredicesimo player globale, e il secondo europeo, dopo la Germania. La siderurgia dà lavoro a 33.400 persone, inserite in una filiera molto articolata: produzione di acciaio e prima trasformazione, centri servizio, distribuzione, commercio di rottame e ferroleghe, taglio e lavorazione della lamiera, utilizzatori. E ha ricavi per quasi 60 miliardi di euro. Conta, nei diversi segmenti, gruppi con fatturati miliardari, come Duferco, Arvedi di Cremona, Danieli di Buttrio, Feralpi di Lonato del Garda, le Acciaierie Venete di Padova, Ori-Martin di Brescia, FinMar (Marcegaglia) di Mantova, e altri. E da noi sono presenti anche importanti produttori stranieri, come la già menzionata ArcelorMittal, come l’indiana JSW che ha acquisito lo stabilimento Lucchini di Piombino, o come ThyssenKrupp in AcciaiSpecialiTerni, che rappresenta il 15% del fatturato industriale umbro. E ci siamo rivolti ad Assofond perché ci ha fornito alcuni dati particolarmente allarmanti per quanto concerne l’incremento dei prezzi. È il caso della ghisa, che è passata da una media di 319 euro per tonnellata a settembre 2020 ai 521 di maggio di quest’anno. 

  1. FEDERACCIAI

Una situazione dovuta solo in parte al Covid 

Tutte le materie prime – e non solo quelle della siderurgia – sono sotto pressione ormai da tempo. Il prodotto d’acciaio ha la peculiarità di essere fondamentale per tutta la manifattura, ma è anch’esso soggetto a crisi della reperibilità di materie prime in ingresso, ovvero il minerale di ferro e il rottame. A monte di questa tensione, comunque, c’è da segnalare una geodinamica piuttosto complesso, che ha visto il significativo incremento del costo del rottame tra il 2020 e il 2021. Il motivo essenziale dell’incremento dei prezzi, dunque, va sicuramente ricercato nel gap fra domanda e offerta. Si tratta di una situazione che ha iniziato a verificarsi nella primavera 2020, quando i lockdown che la pandemia ha imposto più o meno in tutto il mondo hanno ridotto drasticamente la produzione di materie prime. 

«Tutti i paesi – ci spiega Bregant – hanno avuto delle riduzioni di pil, con conseguente calo della produzione di acciaio. Basti pensare che in Italia, tra marzo e aprile del 2020 la produzione era scesa del 40% prima di riuscire a recuperare in modo straordinario e chiudendo sotto di “solo” il 12%. Ma va notato che la produzione a livello mondiale di acciaio è rimasta sostanzialmente costante. La Cina, che rappresenta il 56% della siderurgia mondiale ha incrementato la sua produzione del 7% nonostante sia stato il primo paese a venire colpito. Le industriemanifatturiere che si sono fermate hanno quindi consumato le scorte. A fine anno, con l’inizio della ripresa, la Cina ha continuato a crescere in maniera costante dal punto di vista siderurgico e nel primo trimestre ha fatto +15%. Era un paese esportatore, ma l’incremento dello stimolo interno ha portato a un aumento del 144% dell’import». 

Questa dinamica ha sostanzialmente tolto dal mercato una quota significativa dell’acciaio presente. Nel primo trimestre del 2021, d’altro canto, gli Stati Uniti hanno diminuito la produzione siderurgica del 5%, il che significa che anche loro hanno iniziato a importare moltissimo materiale. La Turchia, negli ultimi mesi del 2020, è riuscita a entrare negli Stati Uniti nonostante vi sia una barriera di protezione che prevede il 25%di dazio per tonnellata. 

«La seconda ragione dell’incremento dei prezzi – continua Bregant – è tecnica. La produzione di acciaio, infatti, avviene o dal minerale di ferro o dal rottame. La Cina è molto sbilanciata: il 90% della sua produzione arriva nel primo modo, e questo fa aumentare a dismisura il costo di approvvigionamento. Anche l’Europa ha uno sbilanciamento del 70% verso il ciclo integrale. L’Italia, invece, ha l’80% della sua produzione che viene realizzata tramite forno elettrico con rottame. E questo si è riverberato sulla ripresa: nel primo trimestre siamo cresciuti del 19%, contro l’1,7% della Germania. E ad aprile siamo saliti ulteriormente». 

Quello che appare evidente, dunque, è che le tensioni sul rottame continueranno anche perché c’è un terzo tema. L’Europa, con il Green New Deal, ha dichiarato di voler procedere con una robusta decarbonizzazione della produzione, puntando su altre forme di energia come l’idrogeno. Ma per portare avanti questa transizione, il modo più immediato per farlo è passare dal ciclo integrale a quello elettrico, facendo aumentare la richiesta di rottame. C’è però un problema: che la Cina ha già messo un dazio del 40% all’esportazione di questa tipologia di materiale siderurgico e lo stesso hanno fatto Russia e Ucraina. L’Europa, invece, esporta il rottame e ogni anno cede 17 milioni di tonnellate. La situazione tornerà a stabilizzarsi solo nel 2022. Secondo gli economisti di Intesa Sanpaolo, infatti, almeno tutto il 2021 sarà soggetto a pesanti tensioni sui prezzi. 

L’impatto dell’aumento dei prezzi sulla ripresa della siderurgia 

L’industria dell’acciaio italiana sta oggettivamente lavorando bene in questo momento. I livelli produttivi sono tornati ai livelli di aprile 2018 e quindi non si può nascondere una certa soddisfazione. «Permangono però due vincoli – ci spiega Bregant – il primo riguarda la nostra capacitàproduttiva, che è quella e che non può contare sull’avvio di nuovi forni. Quello che abbiamo a disposizione lo stiamo già usando al massimo delle possibilità. Il secondo tema riguarda Taranto, che produce una quantità molto limitata rispetto a quanto potrebbe fare. Riuscire a risolvere il problema di quell’acciaieria sarebbe un enorme sollievo per tutta la nostra industria». Un altro grande problema riguarda il fatto che la filiera si compone di una lunga serie di attori che spesso lavorano con contratti fissi e che quindi non possono trasferire a valle l’incremento dei prezzi, di fatto erodendo i margini. 

La geopolitica dell’acciaio 

Quello che però deve essere salutato con grande entusiasmo è l’avvio di un dialogo – si spera fruttuoso – tra Europa e StatiUniti per ammorbidire il meccanismo di sanzioni che ancora sono in vigore. Ma il Vecchio Continente, nel frattempo, può intervenire sul mercato? «L’Europa non ragiona per dazi – chiosa Bregant – e noi non siamo favorevoli a questo tipo di atteggiamento. La nostra filosofia culturale storicamente vuole un mercato, come si suol dire, “fair and free”, e quindi occorre ragionare in modo diverso. Però alcune restrizioni potrebbero e dovrebbero essere sicuramente inserite. Ad esempio: il rottame generato in Europa proviene da acciaio prevalentemente del nostro continente, realizzato quindi in ossequio a prescrizioni ambientali precise e stringenti. Se lo mandiamo in paesi che non hanno le nostre stesse prerogative e che poi ci fanno concorrenza con dumping ambientale, allora questo diventa un autentico controsenso. Su questo tema urge una profonda riflessione: davvero vogliamo vendere i nostri rottami a paesi che lavorano con una diversa sensibilità ambientale rispetto a noi?». 

Infine, rimane da analizzare l’annoso tema dei dazi doganali introdotti durante la “guerra commerciale” tra Usa ed Europa e tra Usa e Cina. Un meccanismo protezionistico che ha soltanto creato ulteriori tensioni. E questo ancora prima che si venisse a sapere dell’esistenza del Coronavirus. Con la salita alla Casa Bianca di Joe Biden in molti hanno sperato che questo circolo vizioso potesse essere spezzato ma, al momento, questo non è ancora successo. Anche se va registrato qualche importante passo avanti. 

«L’Europa e gli Stati Uniti – ci spiega Bregant – si sono messi a dialogare. Una prima buona notizia è arrivata dal fatto che il nostro continente aveva la possibilità di incrementare i dazi tra il 25 e il 50% ma ha deciso di non farlo. E ha dunque aperto a una nuova stagione di maggiore disponibilità verso gli Stati Uniti. Al momento però Biden non ha espresso la benché minima intenzione di togliere l’imposta del 25% per ogni kg di acciaio che entra negli Usa. Permane quindi questa distorsione e l’Europa deve comunque difendersi. Ma il fatto che sia stata avviata una qualche forma di discussione mi fa pensare che ci si sta avviando verso una stagione di progressivo disgelo». 

FONTE: https://www.industriaitaliana.it/materie-prime-federacciai-assofond-prezzi-crescita/ 

 

2021-06-17T15:11:57+02:00
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